LA PRECARIETÀ, un sapore familiare

di Anna Merolle

Precarietà. Questa è la condizione che meglio definisce il sentire dei nostri tempi.

Sono molte le sfaccettature di questo vissuto instabile.

La precarietà ci attacca su più fronti, dai terremoti agli attacchi terroristici fino al costante disagio economico. Anche se alcuni di questi eventi non ci colpiscono direttamente arrivano comunque a noi. Il sentire emotivo collettivo penetra nella nostra sfera personale e la condiziona.

L’ansia diviene la risposta immediata alla precarietà. Ogni qualvolta il nostro sistema di sicurezza viene attaccato, l’ansia ne diviene la risposta. Essa indica che ciò che ci sta aggredendo è un troppo per noi, difficile da sopportare e contenere.

Di fronte a fenomeni quali il terremoto e il terrorismo siamo inermi e impauriti.

A seguito della tragedia in Italia Centrale per le forti scosse e i danni provocati, ho potuto riscontrare in alcuni miei pazienti, maggiormente esposti all’ansia, punte di ricaduta. Gli accaduti hanno risvegliato in loro un mostro di paure antiche.

Una mia paziente a pochi giorni dagli avvenimenti che hanno reso macerie il suo paese, racconta:

“Cosa mi accade dentro? Un senso di vuoto e di distruzione. Non ho più le mie radici, l’unico punto fermo nella mia vita. Il paese, il mio adorato paese. Non c’è più. Solo case da abbattere e crollate. Macerie, solo macerie. Mi sento morta dentro. Triste e inutile. Si può solo aspettare. Si raccoglie tristezza, desolazione e rassegnazione. Bisogna lottare, invece. Le nostre radici sono importanti, sono la nostra vita”

La casa accoglie i nostri bisogni primari di protezione e calore. Garantisce stabilità e sicurezza tant’è che è sempre presente nel disegno libero dei bambini.

Ecco la testimonianza, rilasciata ai giornalisti, di una sopravvissuta alla strage al Bataclan:

“È stato come una folata di vento nel grano. Cadevano tutti, morti, feriti e vivi. Anche se non avete esperienza della guerra, abbiamo subito capito cosa stava succedendo”

In questi due casi viene aggredita la nostra incolumità e la dignità data dalle nostre mura. Inoltre, le vicende geopolitiche rappresentano un altro carico al nostro vissuto d’instabilità.

Esiste però un’altra realtà precaria, a noi più diretta, ed è quella economica e lavorativa.

Nel libro Il filo di Anna (Intermedia ediz.), tra le storie scritte dai pazienti, c’è quella di Pietro e del suo mostro di paure seduto accanto a lui.

 

Mentre guido, un mostro enorme e carico di ansia è seduto accanto a me. Prende il sopravvento, mi fa credere che rimarrò intrappolato nel traffico e che un attacco di panico si impossesserà di me. Vince lui. Decido di rientrare a casa, dove mi sento al sicuro.

 

Per chi, come Pietro, vive costanti preoccupazioni economiche, quest’ultime divengono un pensiero dominante e intrusivo, che prendono di soprassalto come una sveglia impazzita.

L’ansia che ne deriva prende varie sembianze e produce diversi effetti, da un constante stato di allerta e di possibili attacchi di panico fino alla psicosomatizzazione e alla depressione.

La pericolosità di questo problema è l’isolamento emotivo per vergogna e senso di colpa. Non lo si condivide, anzi lo si nasconde il più possibile. Il timore del giudizio diviene il nemico più efferato.

Nei film di Edoardo Leo, Smetto quando voglio e Che cosa vuoi che sia, tra ironia e amarezza, ritroviamo personaggi in lotta continua con la precarietà, alla ricerca disperata di possibili soluzioni creative.

La paura cresce di dimensioni allorquando alberga nell’isolamento interiore delle proprie elucubrazioni. Diviene un mostro a più teste che intrappola e conduce verso un cunicolo freddo e buio. La stanchezza diviene il primo indicatore di malessere.

Il primo passo sta nell’individuare uno spazio di condivisione emotiva. Superare con coraggio questa barriera significa uscire dall’idea che non siamo soli.

Pietro scrive a tal proposito:

 

Il confronto con gli altri ha lasciato spazio alla condivisione, al pianto, ma anche alla battuta giocosa, alla sensazione di toccare con mano uno spazio accogliente nel quale riuscivo a essere vero, finalmente.

 

È un mostro al centro del petto, un peso ingombrante che limita il respiro. Sentiamo la necessità di espellerlo ma non sappiamo come fare. Abbiamo paura di sentirci fuori luogo nell’espressione immediata del proprio sentire. Invece è importante farlo per poter accedere alle nostre risorse interne, risolutrici creative dei problemi. Ogni esercizio fisico che, nella nostra individualità, ricopre una funzione liberatoria a tale malloppo diviene un’opportunità di autoterapia.

Un esercizio espressivo elettivo consiste nello scaricare la rabbia su un cuscino. Quest’ultimo diviene simbolicamente il rappresentante consapevole di ciò che ci accade emotivamente. Anche la possibilità di unire la voce al movimento aumenta la potenza dell’efficacia dell’esercizio. In situazioni di stress, specie se proviamo vergogna e paura, la voce è sacrificata in un tono spezzato. Rianimarla diviene essenziale.

 

Per sciogliere il nodo dell’ansia dobbiamo partire dalla consapevolezza che alcune emozioni provate sono emozioni racket. Queste sono legate ad altri vissuti ed esperienze della nostra storia personale e familiare lungo la linea generazionale. Nel caso di Pietro, dietro la difficoltà a contenere la sua ansia, si nascondeva la paura di ripetere il fallimento del padre. Ritrovare il filo spezzato che ha generato l’emozione racket aiuta a trovare il bandolo della matassa del perché di quella specifica risposta allo stress.

Individuare, quindi, i condizionamenti e traumi lungo la nostra storia consente di superare la condizione di blocco per eventi di vasta portata.

È come allontanarsi dal vissuto che più ci assimila a un bambino, inerme per vicende troppo grandi per lui. Nella vulnerabilità, l’amplificazione emotiva e ansiosa è un fenomeno frequente. Questi accaduti sono tanti piccoli colpi al nostro sistema di ancoraggio alla terra, il ground. È su di esso che noi costruiamo le nostre esperienze. Più queste sono accompagnate da fiducia e legami sicuri maggiormente il nostro ground è solido.

 

Quando accadono situazioni esistenziali stressanti il nostro radicamento a terra diviene più debole e cominciamo a vacillare. La perdita di radicamento e il conseguente scollamento con noi stessi si riscontra quando siamo preda d’illusioni, come ad esempio affidarsi alla speranza del  gioco alla lotteria.

Anche le manovre di evitamento, come negare la realtà dei fatti accaduti, e di compensazione, spostare tutto l’attenzione su altro, sono un’espressione di questo scollamento.

Il risultato è un ritiro dalla realtà sempre più accentuato.

 

È importante tenere a mente che, più siamo sotto stress, e più diveniamo sensibili. Per cui, anche situazioni di semplice difficoltà si trasformano in noi in enormi massi.

 

Prendere consapevolezza nel qui e ora del nostro accadere emotivo con tecniche di respirazione ed esercizi di depotenziamento dell’ansia, provenienti da diversi approcci psicologici, aiuta a mantenere un contatto con la realtà. L’attenzione consapevole agli stati emotivi e la loro rimodulazione assieme alla condivisione favorisce nuovi adattamenti utili al superamento dello stress da precarietà.

 

Oggi Pietro ha trovato la forza di rialzarsi e creativamente è riuscito a trasformare il suo zaino pieno di paure, vergogne e reticenze in un inerme peluche.

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